QUATTRO GIORNATE CONTRO IL CARCERE

Morire in carcere, morire all’interno di tre muri freddi e spogli e una fila di sbarre di ferro. Lontano dall’affetto di quelle persone di cui la vita ti ha circondato.

Negli ultimi istanti essere privato non solo della dignità, ma anche dell’affetto rassicurante di madri, padri e amici. Lasciare la vita e avere come ultime immagini le disgustose facce sudate di qualche servetto di Stato. Facce distorte dalla ignobile violenza che sfogano su di te, sul tuo corpo, sul tuo io più profondo. Chi può sapere e comprendere la paura e il dolore che si provano in quel momento? Chi può sapere e comprendere quello che si prova a sentirsi dire da qualche macellaio in divisa che tuo figlio è morto, morto ammazzato, torturato e gettato in un angolo? O magari sentirsi dire che sì, è morto, ma morto di un malore, un malore che gli ha fratturato le ossa. Che gli ha lasciato come ultimo e meschino “regalo” un po’ della vernice blu della cella all’interno del corpo. Quasi come un marchio. Il marchio dello Stato. Il carcere è un luogo di solitudine, annichilimento e dolore. “Vive” di proprie regole, dettate ad arte da qualche laido opulento politico in giacca e cravatta e messe in pratica da picchiatori in divisa: i secondini. Il carcere è un’istituzione pensata per punire attraverso l’annientamento, la tortura e la privazione. La concretizzazione di un sistema fondato sulla prevaricazione, cercando in questo modo di piegare gli individui.

Lungi da noi il dar credito all’idea di una qualche specie di utilità o giustizia nella “rieducazione statale” dei vari “criminali” o “delinquenti”; vorremmo tutte le carceri abbattute. Perché non può esistere istituzione carceraria senza l’esercizio dell’autorità. Per questo non potranno mai esistere galere anarchiche.

Allo stesso tempo non riconosciamo la giustizia dei tribunali, che nulla fa se non imprigionare. Immaginiamo altri modi di risolvere i conflitti che sono ancora tutti da pensare. Perché quindi raccogliere soldi per un avvocato che deve intentare una causa? Perché alcuni percorsi di lotta, che si sono rivelati radicali e non disposti alla mediazione col nemico, meritano di essere sostenuti, anche se non completamente coincidenti con le nostre tensioni, ma con le giuste precisazioni: è proprio nello spazio tra i diversi fini che può nascere un dibattito e una crescita che riguarda la scelta dei mezzi e degli obiettivi delle lotte stesse.

Le nostre contraddizioni le rendiamo elemento di confronto, senza nasconderle sotto il tappeto.

C’è molto silenzio intorno a ciò che avviene tra quelle mura, sarà forse che alcune dinamiche istituzionali è meglio che restino dietro ad una cortina di fumo? Che non vengano viste? In fondo è molto più comodo non vedere, perché per molti il non vedere è il modo migliore per essere a posto con la coscienza. Chi se ne frega se qualche disadattato muore in carcere! Specialmente quando le cose “importanti” sono altre: andare a vendersi otto ore al giorno in qualche fabbrica o ufficio, risparmiare per potersi comprare una bella maglia firmata, o preoccuparsi del perché nessuno ha cliccato “mi piace” sull’ultimo selfie pubblicato su quello schifo di Facebook.

Si, è decisamente meglio non vedere. Ma non per tutti. Lo Stato prospera sulle spalle di chi si prostra all’accettazione. Si nutre dell’ignoranza e del menefreghismo pigro di tutti coloro che vivono una vita addomesticata. I potenti ci vorrebbero deboli, soli e consenzienti. Molto spesso sono accontentati. Noi ripudiamo la società, provando disgusto, rabbia e fastidio verso ogni suo meccanismo e complice. Il carcere è semplicemente la materializzazione di un sistema fascista, violento, autoritario e corrotto. E così come ogni singolo mattone o sbarra è da demolire per privare il sistema di uno dei suoi cardini, ogni funzionario di Stato, a partire dal basso, dovrebbe essere considerato nemico, bersaglio e ostacolo della nostra tensione verso un mondo libero.

Lo Stato uccide e tortura, distruggerlo sotto ogni aspetto è il primo passo per tutte quelle persone che non sono disponibili a svendere la propria dignità e che non sono più disposte a sopportare in silenzio.

Fuoco alle Carceri.
Fuoco alle polveri.
Fuoco al sistema.
Inseguiamo il sogno di una vita libera.

La Ciurma del Galeone Occupato